da WineMeridian – giovedì 05 novembre 2015

Cosa sono, come sceglierli e come (non) usarli. I consigli dell’esperto Paolo Errico

Un concetto chiave nella comunicazione via social network è quello di hashtag. Gli hashtag sono, a livello puramente visivo, parole precedute dal simbolo del cancelletto (hash key, in inglese), che le rende collegamenti ipertestuali che servono a indicizzare e categorizzare (tag significa proprio etichetta) i contenuti pubblicati. In altre parole, sono aggregatori tematici che semplificano la ricerca di particolari messaggi, articoli o post su un tema specifico.

Per capirne meglio il funzionamento è forse bene fare un piccolo passo indietro. Negli anni in cui si è registrato il boom dei blog, avere una tag cloud, ovvero letteralmente una rappresentazione grafica degli hashtag a forma di nuvola, significava avere una sorta di indice dei contenuti del blog. Sostanzialmente, la tag cloud finiva per raccogliere i temi più ricorrenti all’interno degli articoli, e per il visitatore del sito era sufficiente fare click su uno di questi, ad esempio #libri, per filtrare i contenuti e avere quindi a portata di mano tutti gli articoli su quel particolare argomento, escludendo quindi dalla visualizzazione tutti gli altri e facilitando la ricerca.

Oggi gli hashtag hanno fatto molti passi in avanti, finendo spesso per accompagnare i loghi aziendali e tutti i messaggi veicolati dai brand verso l’esterno. Alcuni però finiscono con l’abusarne, e con lo scrivere post fatti di soli hashtag, soltanto per accaparrarsi qualche like in più. La prima cosa da ricordare è quindi che gli hashtag, proprio per il loro essere all’apparenza incredibilmente facili da usare, sono anche altrettanto facili da sbagliare: è facile abusarne ed è facile che si rivelino un’arma a doppio taglio. Nella breve ma intensa storia dei social network, sono moltissimi i casi di aziende che, a causa di un hashtag sbagliato, si sono ritrovate invase da post fatti di critiche, commenti denigratori e, nei peggiori dei casi, insulti, con conseguente danno all’immagine dell’azienda e spreco del denaro investito in campagne rivelatesi non solo fallaci, ma soprattutto controproducenti. A tal proposito, a fare storia è McDonald’s che, dopo aver lanciato una campagna a suon di hashtag #McDStories e volta a raccogliere storie emotive e racconti di clienti intorno al brand, si è ritrovata sommersa da critiche sulla qualità del cibo e storie fatte piuttosto di ossicini pericolosi ritrovati nei nuggets e unghie finite tra le patatine fritte. Il danno all’immagine, inutile sottolinearlo, non è stato trascurabile.

Nel caso specifico della comunicazione aziendale, la premessa è che l’hashtag sia in linea con il brand e che ne rispetti la strategia, ma prima di gettarlo nella fossa dei leoni iniziando a postarlo è bene anche controllare che si tratti effettivamente di un’idea originale e inedita. Con il proliferare di hashtag, è facile cadere nella trappola di percorrere strade già battute o di copiare, anche involontariamente, idee già sfruttate da altri. È troppo specifico o troppo generico? Può suscitare critiche di qualche tipo? È facilmente confondibile con altri hashtag? È adatto al target a cui voglio rivolgermi? Si dovrebbe scegliere qualcosa di originale e investire del tempo per condurre una ricerca che faccia luce sui sentimenti generali collegati a quello specifico argomento. Infine, la soluzione scelta dovrebbe essere univoca e sintetica, quindi facile da leggere e memorizzare.

 

[foto: fonte thedigitalelevator.com]